Il lutto perinatale: perché é importante parlarne
“La morte non è la più grande perdita nella vita.
La più grande perdita è ciò che muore dentro di noi mentre stiamo vivendo”
Nᴏʀᴍᴀɴ Cᴏᴜsɪɴs
Della morte ai nostri tempi non si parla più. Anche solo nominarla evoca la sensazione di essere inopportuni, indelicati come se la morte non fosse più una tappa del percorso della nostra vita.
Tuttavia si muore e non solo da vecchi, ma “anche prima di venire al mondo”.
La perdita di un bambino durante la gravidanza viene definita in maniera diversa nelle varie parti del mondo, solitamente in base all’età gestazionale e al peso fetale, elementi variabili a seconda della legislazione di ogni paese.
Nella legislazione vigente in Italia la differenza tra “aborto” e “nato morto” è posta a 180 giorni di età gestazionale (25 settimane e 5 giorni compiuti) quindi un feto senza vitalità espulso dal 181mo giorno è considerato nato morto, prima del 180mo giorno invece un aborto spontaneo.
“March of Dimes” un'organizzazione no profit americana che si occupa di salute materna e infantile, in una ricerca del 2019 riporta un tasso di aborti spontanei del 10-15% tra le donne che sapevano già di essere incinte, mentre registrano 2,6 milioni di morti premature dei feti.
Queste definizioni di tipo anatomo-clinico e statistiche non ha nulla a che vedere con gli aspetti psicologici della perdita e con il lutto percepito dalla madre e dalla coppia.
Se già affrontare la morte di un nostro caro è complicato, ancora più complesso è affrontare la morte di un bambino avvenuta prima della sua nascita.
La questione si presenta complessa e mostra il fianco a molti dibattiti di natura religiosa, etica, psicologica. Non sappiamo “se è possibile definire morta una bambina non ancora venuta al mondo”. Non è chiaro se il legame con un piccolo insieme di molecole in via di moltiplicazione si possa definire un legame reale o solo una proiezione dei propri desideri.
Spesso la reazione automatica è restare fedeli ai valori del nostro tempo distraendosi, cioè evitando di pensarci troppo; così “semplicemente” non ci si occupa di questa morte, la si evita accantonando il dolore di questa perdita.
Nonostante ciò se prestassimo attenzione ai racconti e alle storie delle famiglie che ogni anno attraversano questo dolore sapremmo per molti genitori il proprio figlio è parte della loro vita spesso già da quando era solo un desiderio condiviso con il partner.
È reale non è venuto al mondo nessuno eppure ciò che resta nel cuore di queste coppie è un vuoto assordante fatto di aspettative infrante, di sogni e progetti che hanno accompagnato la gravidanza che sono smontati in un’istante quando arriva quella maledetta frase dei sanitari: “C’è un problema, non sento il battito”, se va bene accompagnata da un volto imbarazzato e da un: “Mi dispiace”.
Il lutto per la perdita di un figlio ha una dimensione emotiva che proprio non è “misurabile” in settimane gestazionali.
E’ l’unico lutto che “spesso non ha accesso ai riti”.
I riti sono fondamentali per noi esseri umani non da oggi di sicuro. Già dal paleolitico infatti, dunque tra 40 000 e i 200 000 anni fa, esisteva il bisogno di occuparsi dei propri defunti e del proprio lutto e lo facevano adagiando oggetti di uso quotidiano a fianco al corpo deposto con cura. Questi ritrovamenti sono per noi il segnale che ci lascia intuire come già da allora esisteva la cura del defunto e del lutto e di quanto si sentisse il bisogno già allora di immaginare una vita dopo la morte.
I riti, ma più in generale la condivisione del dolore causato dalla perdita, sono così importanti per noi esseri umani che questi genitori hanno inventato il Babyloss.
Il Baby Loss Awareness Day è la giornata di commemorazione di tutti i bambini morti durante la gravidanza o subito dopo il parto e avviene in tutta Italia il 15 Ottobre: la commemorazione avviene ritrovandosi in diverse città d’Italia e lanciare dei palloncini e accendere candele.
Chissà perché le donne che vivono un lutto perinatale sono invece indotte quasi da subito a non parlare del loro dolore né tanto meno a definirsi in lutto, in quanto l'evento viene percepito dall'esterno come “molto comune o inevitabile”.
Gli ospedali ed il personale sanitario stesso appaiono disorganizzati ad affrontare queste situazioni così dolorose per le coppie e così tristemente frequenti: basti pensare che anche nei paesi ad alto sviluppo molte donne partoriscono il loro bambino morto nei reparti di ostetricia circondate da donne con bambini in salute.
Nel nostro paese le leggi vigenti da quasi quaranta anni offrono a tutte le donne la possibilità di scegliere la sepoltura / cremazione a qualunque età gestazionale oppure, a seconda delle regole dell'ospedale, il corpo dei bambini può essere trattato come un rifiuto ospedaliero e incenerito.
Se è vero che nessun ospedale può rifiutarsi di rilasciare il corpo del bambino o impedire alla famiglia di provvedere alla sepoltura, è anche vero che” ad oggi sono solo le regioni della Lombardia, Campania, Marche e Veneto ad avere una normativa locale che preveda l’obbligo per il personale sanitario di mettere al corrente i genitori della loro possibilità di seppellire il loro bambino”.
In Italia, ad oggi non esiste una procedura univoca rispettata da tutti i punti nascita per la gestione dell'aborto e, soprattutto di quello del primo trimestre. La procedura è fortemente legata alle scelte aziendali che possono optare tra aborto farmacologico, aborto chirurgico e “attesa”.
A volte infatti, quando una donna scopre che non c è il battito del suo bambino le viene chiesto di aspettare anche qualche settimane prima di partorire: questa attesa è emotivamente traumatica per la donna e per il suo compagno.
La disorganizzazione e la mancanza di sensibilità degli operatori sanitari, e in generale la negazione della società della legittimità del loro dolore e del loro lutto, hanno conseguenze enormi per le donne che molto spesso sviluppano problemi di natura psicologica che possono durare anche molti anni, a volte decenni.
Negare l' esistenza del dolore di questi genitori a cui muore un figlio durante la gestazione “significa impedirgli di dare senso a ciò che stanno vivendo”, restando così bloccati in un passato doloroso che resterà un eterno presente nella loro mente e nel loro cuore.
Dando seguito a queste riflessioni, Il 13 marzo 2019 l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un'attesa inchiesta sull'argomento dal titolo “Why we need to talk about losing a baby”, mettendo al centro le storie di numerose donne di diversa provenienza geografica che hanno vissuto l'esperienza in prima persona.
Da questa inchiesta emerge come, sebbene l’atteggiamento culturale nei confronti della perdita di un bambino possa variare enormemente da un paese all'altro, ovunque, quando una donna (e una coppia) perde un figlio, si vive l’esperienza probabilmente più devastante della propria vita. Proposizione dell’inchiesta è che gli aspetti biomedici e fisiologici debbano essere accompagnati da supporto sociale, culturale, emotivo e psicologico.
Questi aspetti emergono chiaramente dalle seguenti testimonianze tratte in originale dall’inchiesta.
TESTIMONIANZE
Jessica Zucker, psicologa clinica e scrittrice (USA)
Come psicologa clinica, mi sono specializzata nel campo della salute mentale materna e della riproduzione delle donne e ho praticato la mia professione in questo campo per più di dieci anni. Ma è solo quando ho fatto esperienza in prima persona di un aborto spontaneo a sedici settimane di gravidanza che ho potuto cogliere pienamente l'angoscia e il lutto di cui le pazienti mi parlavano da anni. Solo dopo l'aborto spontaneo ho compreso appieno i sentimenti di vergogna e il senso di responsabilità per la perdita del bambino di cui mi parlavano.
Larai, 44 anni, farmacista (Nigeria)
L'esperienza del mio aborto spontaneo è stata traumatica. Lo staff medico ha contribuito molto a peggiorare il mio dolore, nonostante sia anch'io una dottoressa. L'altro problema è stato l'atteggiamento culturale. Nella maggior parte delle culture tradizionali africane la gente pensa che puoi perdere un bambino a causa della stregoneria o degli spiriti maligni. La perdita di un bambino qui è un'esperienza carica di pregiudizi perché alcune persone credono che ci sia qualcosa che non va nella donna che ha un aborto spontaneo. Si pensa che conduca una vita promiscua e che quindi la perdita sia una punizione divina.
Kimberly Van Der Beek (USA)
Ho avuto tre aborti spontanei, tutti intorno alla decima settimana di gestazione e ho lasciato che avvenissero in modo naturale. Avevo un marito affettuoso e un sostegno medico sensibile che mi hanno dato molta forza. Nonostante ciò, ogni volta ne uscivo devastata. Dopo uno dei tre aborti spontanei sono rimasta cinque ore a piangere sotto la doccia. Trovo desolante il fatto che non tutte le donne e nemmeno i padri, vengono trattati con la stessa sensibilità e con lo stesso supporto in un momento così doloroso.
Lisa, 40 anni, marketing manager (UK)
Ho avuto quattro aborti spontanei. Ogni volta che succede, una parte di te muore. Il più traumatico è stato il primo: eravamo così eccitati all'idea di avere un figlio. Quando siamo andati a fare il controllo delle dodici settimane mi hanno detto che avevo avuto un aborto spontaneo, chiamato anche aborto silente, che voleva dire che il mio bambino era morto già da tempo, ma il mio corpo non aveva mostrato nessun sintomo. Ero devastata e non riuscivo a credere che mi stavano rimandando a casa con il mio bambino morto dentro di me, senza darmi alcun consiglio.
Divya Samson Panabakam, 30 anni, consulente (India)
Nel 2013 ho avuto il mio primo aborto spontaneo. Appena ho cominciato a sanguinare sono andata in ospedale, dove mi hanno detto di fare un'ecografia, ma la responsabile pensava che non fossi sposata e allora mi ha fatto aspettare. Le ho chiesto: “Anche se non fossi sposata perché dovresti trattare una persona che sta perdendo un bambino in questo modo?”. Lei mi guardò e disse: “Non si tratta di un'emergenza, lo sarebbe solo se avessi più di 60 anni”.
Andrea, 28, stilista, Colombia
Quando ero incinta di 12 settimane sono andata a fare l'ecografia programmata. Il dottore mi ha detto che c'era qualcosa che non andava senza specificare cosa fosse. Il giorno successivo mi sono svegliata ed ho notato che il letto era macchiato di sangue. Non ho ricevuto nessuna informazione sul perché io abbia avuto un aborto. Le infermiere sono state molto fredde e insensibili e si sono comportate come se per loro fosse solo routine. Di tutto lo staff dell'ospedale l'unico che ha mostrato un pò di umanità è stato il medico che più avanti mi ha rassicurato che avrei potuto cercare un'altra gravidanza.
Sarah, 40, impiegato statale, Australia
La morte in utero è molto frequente in Australia: colpisce 2000 famiglie ogni anno. Il numero di morti in utero è rimasto invariato negli ultimi 20 anni e per le donne indigene è addirittura il doppio. Prima che accadesse a me e io diventassi quell' 1 su 6 non avevo mai pensato che un bambino potesse morire in utero. Non se ne parla mai. Il medico mi aveva detto del rischio di prolasso del cordone a causa dell’eccesso di liquido amniotico, ma nessuno mi aveva detto che avevo anche un rischio aumentato di morte in utero.
Becky, 38, insegnante di scuola primaria, Vietnam
Io e mio marito eravamo al settimo cielo quando sono rimasta incinta di due gemelle ed è stato devastante perderne una - il suo nome è Isla - a 34 settimane. Ero terrorizzata di perdere anche l'altra e ho insistito per stare in ospedale. Il giorno dopo ho partorito con un taglio cesareo le nostre bimbe. Dopotutto l'ospedale è stato di grande sostegno, ci è stata data una camera singola e abbiamo avuto tempo da passare con Isla. Nonostante questo però alcuni dottori hanno manifestato totale mancanza di sensibilità e uno mi ha addirittura chiesto perchè piangessi e mi ha detto di farmi forza.
IL VISSUTO DI COLPA E VERGOGNA
Dall’inchiesta si evince dunque che molte donne, anche nei paesi più sviluppati dove sono disponibili le migliori procedure sanitarie, ancora oggi non ricevono cure appropriate e rispettose quando il loro bambino muore durante la gravidanza o al momento del parto e che, perdere un bambino durante la gravidanza per aborto spontaneo o morte in utero è ancora un tabù in tutto il mondo a cui si associa un vissuto di colpa e vergogna.
“Non sono riuscita a fare niente per salvarti dalla morte. Cosa ho sbagliato per meritare che accadesse questo? Io sono viva e tu no, con quale diritto torno a vivere adesso”?
Sono queste le parole, negate spesso anche alla propria stessa consapevolezza perché troppo dolorose, che rimbalzano silenziosamente nel cuore e nella mente di una mamma che vive un lutto perinatale a cui si aggiunge il terrore di dimenticare tutto del proprio figlio, i tratti del suo viso e le sensazioni del breve contatto con lui quando è stato possibile. La memoria si aggrappa disperatamente ad ogni piccolo frammento anche il più terrificante.
Un altro tema è il rimpianto per aver scelto di non vederlo se nato morto o malformato, di non averlo salutato dopo l’autopsia, di non averlo tenuto in braccio mentre moriva.
E ’un dolore silenzioso e lacerante che, se non riconosciuto e trattato, neanche la nascita di figli sani in seguito può curare del tutto.
GLI ALTRI BAMBINI
Quando parliamo di lutti perinatali, morti endouterine, morti endofetali, aborti spontanei e persino quando parliamo di interruzioni volontarie di gravidanza stiamo parlando della stessa cosa: eventi traumatici che continuano ad esercitare i loro effetti sul futuro se non affrontati e trattati in psicoterapia.
Le ricadute sono importanti sulla coppia, sulla gravidanza successiva, sui figli che già c’erano e anche sulla percezione del futuro della donna.
Non è raro, dopo un lutto perinatale, sentirsi esortare a vivere per i vivi e non sprecare tempo coi morti.
Sebbene sia umano e comprensibile in una fase iniziale del lutto appoggiarsi ai propri cari, sentire di poter contare sul loro affetto e la loro vicinanza, in seguito c’è il rischio che questa vicinanza diventi asfissiante per loro. C’è il rischio di spostare inconsapevolmente il peso del dolore inevitabile che la morte ha prodotto sulle spalle dei figli vivi, caricandoli di enormi responsabilità.
“Ci si convince che la propria vita abbia senso solo grazie al proprio bambino vivo e si finisce con il riversare su di lui tutta la propria esistenza”. Questo è pericolosissimo.
I bambini schiacciati dal peso di questa responsabilità, che sentono chiaramente anche da molto piccoli, “tenderanno a sentirsi fragili e avranno paura che un qualunque loro gesto possa ferire irrimediabilmente il genitore” percepito come fragile, triste, smarrito.
Ad esempio è molto importante che bambini sappiano perché le persone intorno a loro sono tristi, devono poter capire perché anche loro sono tristi ora che il fratellino o la sorellina non arriverà più.
Le domande che i bambini vivi possono porre agli adulti sono tante, come ad esempio: Morirò anche io? Moriranno anche i miei genitori? Quello che è successo è successo per colpa mia? È normale, infatti, che in gravidanza il bambino abbia provato gelosia o manifestato aggressività verso il futuro fratellino, il bambino può dunque pensare che l’effetto di questa sua gelosia possa essere stato la causa della perdita del bambino.
E’ importante rispondere a queste domande in modo chiaro per evitare che alimentino in solitudine i loro sensi di colpa che resteranno nel loro cuore per sempre.
Dobbiamo abbandonare l’idea che i bambini non capiscano, loro capiscono molto bene ciò che li circonda, soprattutto lo stato emotivo delle persone intorno a loro.
Con la loro innocenza ci pongono domande più o meno dirette e l’adulto dovrebbe tutelarli sempre e comunque, dando risposte chiare fatte di parole semplice e adatte a loro. Se è difficile per l’adulto trovare queste parole è importante andare da un professionista anche solo per farsi aiutare ad individuarle.
LE GRAVIDANZE SUCCESSIVE
Sebbene probabilmente saranno in molti a consigliare di riprovare subito ad avere un altro figlio, in linea con i “valori della distrazione e della dissociazione dal dolore” tipica del nostro tempo, questa scelta sarebbe rischiosa.
Non bisogna avere fretta di mettere al mondo un’altra vita: è importante concedersi il tempo per elaborare il lutto.
Per poter affronta senza ansia una gravidanza dopo un lutto perinatale serve tempo per elaborare il proprio dolore, e per passare dalla disorganizzazione che l’evento ha creato nella propria mente e nella propria vita, a una riorganizzazione psichica ed emotiva che renda possibile per i genitori la creazione di una relazione con il bambino che possa essere libera dai condizionamenti del passato e dal suo dolore.
Per fare questo è necessario un tempo: alcuni autori consigliano di aspettare almeno 1 anno, ma è un aspetto molto delicato e soggettivo, qualcuno potrebbe aver bisogno di più tempo.
Se è vero che ogni bambino che non può essere vissuto dai propri genitori ha il diritto di essere ricordato, ogni bambino che nasce ha il diritto di essere trattato nella sua unicità.
COSA ACCADE NELLA COPPIA
Per elaborare il lutto è necessario parlare principalmente con il partner.
Parlare con il partner del dolore aiuta a percepire la perdita come reale ad affrontarla e a superarla.
Può accadere che possa far paura l’idea di trovarsi faccia a faccia con il dolore e la disperazione del partner, oppure che possa far paura l’idea di travolgerlo con il proprio dolore. Il rischio è dunque che entrambi creino una corazza difensiva per proteggersi ed apparentemente proteggere l’altro dal dolore.
Se la coppia non riesce a comunicare il proprio dolore questo molto spesso porta a pericolosi equivoci: la donna penserà che quel bambino per il compagno non abbia avuto lo stesso valore che ha avuto per lei . Il compagno al tempo stesso continuerà a non affrontare l’argomento e a tacere il suo dolore, preoccupato dello stato emotivo della donna, mettendo le sue reazioni emotive da parte e rifugiandosi spesso nel lavoro.
A volte l’evoluzione di queste situazioni conduce a perdersi, pur continuando a vivere sotto lo stesso tetto.
E’ importante che la coppia sappia che sta vivendo una delle prove più difficili nella vita e che le loro risorse interne e il loro amore possono non bastare ad aiutarli. E’ necessario in molti casi il supporto di un professionista che possa supportarli a comunicare le proprie emozioni e i propri vissuti, nel rispetto dei modi e dei tempi dell’altro. Questo permette di riavvicinarsi ed andare avanti insieme.
Può capitare che l’elaborazione del lutto possa essere ostacolata perché associata alla convinzione che superare il lutto equivalga a dimenticare il bambino non nato. I genitori hanno paura di dimenticarlo, hanno paura di dimenticare la sofferenza, perché la sofferenza li lega a lui.
E’ importante sapere che i bambini persi non saranno mai persi in realtà, perché i loro genitori li terranno per sempre nei loro ricordi e nel cuore, ma bisogna imparare a darsi un “po’ di respiro”, sapendo che elaborare un lutto non vuol dire dimenticare, vuol dire solo riporre al giusto posto l’amore provato.
“…Vorrei imparare a separare i ricordi dal dolore o almeno una parte di essi per quanto è possibile. Vorrei solo che non tutto il passato sia così intriso dal dolore. In questo modo potrei ricordarti ancora di più, capisci? Non avrò paura ogni volta del bruciore dei ricordi. Devo accomiatarmi da te… allontanarmi solo quel tanto necessario perché il petto possa allargarsi in un respiro completo”.
Bibliografia
Tuttavia si muore e non solo da vecchi, ma “anche prima di venire al mondo”.
La perdita di un bambino durante la gravidanza viene definita in maniera diversa nelle varie parti del mondo, solitamente in base all’età gestazionale e al peso fetale, elementi variabili a seconda della legislazione di ogni paese.
Nella legislazione vigente in Italia la differenza tra “aborto” e “nato morto” è posta a 180 giorni di età gestazionale (25 settimane e 5 giorni compiuti) quindi un feto senza vitalità espulso dal 181mo giorno è considerato nato morto, prima del 180mo giorno invece un aborto spontaneo.
“March of Dimes” un'organizzazione no profit americana che si occupa di salute materna e infantile, in una ricerca del 2019 riporta un tasso di aborti spontanei del 10-15% tra le donne che sapevano già di essere incinte, mentre registrano 2,6 milioni di morti premature dei feti.
Queste definizioni di tipo anatomo-clinico e statistiche non ha nulla a che vedere con gli aspetti psicologici della perdita e con il lutto percepito dalla madre e dalla coppia.
Se già affrontare la morte di un nostro caro è complicato, ancora più complesso è affrontare la morte di un bambino avvenuta prima della sua nascita.
La questione si presenta complessa e mostra il fianco a molti dibattiti di natura religiosa, etica, psicologica. Non sappiamo “se è possibile definire morta una bambina non ancora venuta al mondo”. Non è chiaro se il legame con un piccolo insieme di molecole in via di moltiplicazione si possa definire un legame reale o solo una proiezione dei propri desideri.
Spesso la reazione automatica è restare fedeli ai valori del nostro tempo distraendosi, cioè evitando di pensarci troppo; così “semplicemente” non ci si occupa di questa morte, la si evita accantonando il dolore di questa perdita.
Nonostante ciò se prestassimo attenzione ai racconti e alle storie delle famiglie che ogni anno attraversano questo dolore sapremmo per molti genitori il proprio figlio è parte della loro vita spesso già da quando era solo un desiderio condiviso con il partner.
È reale non è venuto al mondo nessuno eppure ciò che resta nel cuore di queste coppie è un vuoto assordante fatto di aspettative infrante, di sogni e progetti che hanno accompagnato la gravidanza che sono smontati in un’istante quando arriva quella maledetta frase dei sanitari: “C’è un problema, non sento il battito”, se va bene accompagnata da un volto imbarazzato e da un: “Mi dispiace”.
Il lutto per la perdita di un figlio ha una dimensione emotiva che proprio non è “misurabile” in settimane gestazionali.
E’ l’unico lutto che “spesso non ha accesso ai riti”.
I riti sono fondamentali per noi esseri umani non da oggi di sicuro. Già dal paleolitico infatti, dunque tra 40 000 e i 200 000 anni fa, esisteva il bisogno di occuparsi dei propri defunti e del proprio lutto e lo facevano adagiando oggetti di uso quotidiano a fianco al corpo deposto con cura. Questi ritrovamenti sono per noi il segnale che ci lascia intuire come già da allora esisteva la cura del defunto e del lutto e di quanto si sentisse il bisogno già allora di immaginare una vita dopo la morte.
I riti, ma più in generale la condivisione del dolore causato dalla perdita, sono così importanti per noi esseri umani che questi genitori hanno inventato il Babyloss.
Il Baby Loss Awareness Day è la giornata di commemorazione di tutti i bambini morti durante la gravidanza o subito dopo il parto e avviene in tutta Italia il 15 Ottobre: la commemorazione avviene ritrovandosi in diverse città d’Italia e lanciare dei palloncini e accendere candele.
Chissà perché le donne che vivono un lutto perinatale sono invece indotte quasi da subito a non parlare del loro dolore né tanto meno a definirsi in lutto, in quanto l'evento viene percepito dall'esterno come “molto comune o inevitabile”.
Gli ospedali ed il personale sanitario stesso appaiono disorganizzati ad affrontare queste situazioni così dolorose per le coppie e così tristemente frequenti: basti pensare che anche nei paesi ad alto sviluppo molte donne partoriscono il loro bambino morto nei reparti di ostetricia circondate da donne con bambini in salute.
Nel nostro paese le leggi vigenti da quasi quaranta anni offrono a tutte le donne la possibilità di scegliere la sepoltura / cremazione a qualunque età gestazionale oppure, a seconda delle regole dell'ospedale, il corpo dei bambini può essere trattato come un rifiuto ospedaliero e incenerito.
Se è vero che nessun ospedale può rifiutarsi di rilasciare il corpo del bambino o impedire alla famiglia di provvedere alla sepoltura, è anche vero che” ad oggi sono solo le regioni della Lombardia, Campania, Marche e Veneto ad avere una normativa locale che preveda l’obbligo per il personale sanitario di mettere al corrente i genitori della loro possibilità di seppellire il loro bambino”.
In Italia, ad oggi non esiste una procedura univoca rispettata da tutti i punti nascita per la gestione dell'aborto e, soprattutto di quello del primo trimestre. La procedura è fortemente legata alle scelte aziendali che possono optare tra aborto farmacologico, aborto chirurgico e “attesa”.
A volte infatti, quando una donna scopre che non c è il battito del suo bambino le viene chiesto di aspettare anche qualche settimane prima di partorire: questa attesa è emotivamente traumatica per la donna e per il suo compagno.
La disorganizzazione e la mancanza di sensibilità degli operatori sanitari, e in generale la negazione della società della legittimità del loro dolore e del loro lutto, hanno conseguenze enormi per le donne che molto spesso sviluppano problemi di natura psicologica che possono durare anche molti anni, a volte decenni.
Negare l' esistenza del dolore di questi genitori a cui muore un figlio durante la gestazione “significa impedirgli di dare senso a ciò che stanno vivendo”, restando così bloccati in un passato doloroso che resterà un eterno presente nella loro mente e nel loro cuore.
Dando seguito a queste riflessioni, Il 13 marzo 2019 l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un'attesa inchiesta sull'argomento dal titolo “Why we need to talk about losing a baby”, mettendo al centro le storie di numerose donne di diversa provenienza geografica che hanno vissuto l'esperienza in prima persona.
Da questa inchiesta emerge come, sebbene l’atteggiamento culturale nei confronti della perdita di un bambino possa variare enormemente da un paese all'altro, ovunque, quando una donna (e una coppia) perde un figlio, si vive l’esperienza probabilmente più devastante della propria vita. Proposizione dell’inchiesta è che gli aspetti biomedici e fisiologici debbano essere accompagnati da supporto sociale, culturale, emotivo e psicologico.
Questi aspetti emergono chiaramente dalle seguenti testimonianze tratte in originale dall’inchiesta.
TESTIMONIANZE
Jessica Zucker, psicologa clinica e scrittrice (USA)
Come psicologa clinica, mi sono specializzata nel campo della salute mentale materna e della riproduzione delle donne e ho praticato la mia professione in questo campo per più di dieci anni. Ma è solo quando ho fatto esperienza in prima persona di un aborto spontaneo a sedici settimane di gravidanza che ho potuto cogliere pienamente l'angoscia e il lutto di cui le pazienti mi parlavano da anni. Solo dopo l'aborto spontaneo ho compreso appieno i sentimenti di vergogna e il senso di responsabilità per la perdita del bambino di cui mi parlavano.
Larai, 44 anni, farmacista (Nigeria)
L'esperienza del mio aborto spontaneo è stata traumatica. Lo staff medico ha contribuito molto a peggiorare il mio dolore, nonostante sia anch'io una dottoressa. L'altro problema è stato l'atteggiamento culturale. Nella maggior parte delle culture tradizionali africane la gente pensa che puoi perdere un bambino a causa della stregoneria o degli spiriti maligni. La perdita di un bambino qui è un'esperienza carica di pregiudizi perché alcune persone credono che ci sia qualcosa che non va nella donna che ha un aborto spontaneo. Si pensa che conduca una vita promiscua e che quindi la perdita sia una punizione divina.
Kimberly Van Der Beek (USA)
Ho avuto tre aborti spontanei, tutti intorno alla decima settimana di gestazione e ho lasciato che avvenissero in modo naturale. Avevo un marito affettuoso e un sostegno medico sensibile che mi hanno dato molta forza. Nonostante ciò, ogni volta ne uscivo devastata. Dopo uno dei tre aborti spontanei sono rimasta cinque ore a piangere sotto la doccia. Trovo desolante il fatto che non tutte le donne e nemmeno i padri, vengono trattati con la stessa sensibilità e con lo stesso supporto in un momento così doloroso.
Lisa, 40 anni, marketing manager (UK)
Ho avuto quattro aborti spontanei. Ogni volta che succede, una parte di te muore. Il più traumatico è stato il primo: eravamo così eccitati all'idea di avere un figlio. Quando siamo andati a fare il controllo delle dodici settimane mi hanno detto che avevo avuto un aborto spontaneo, chiamato anche aborto silente, che voleva dire che il mio bambino era morto già da tempo, ma il mio corpo non aveva mostrato nessun sintomo. Ero devastata e non riuscivo a credere che mi stavano rimandando a casa con il mio bambino morto dentro di me, senza darmi alcun consiglio.
Divya Samson Panabakam, 30 anni, consulente (India)
Nel 2013 ho avuto il mio primo aborto spontaneo. Appena ho cominciato a sanguinare sono andata in ospedale, dove mi hanno detto di fare un'ecografia, ma la responsabile pensava che non fossi sposata e allora mi ha fatto aspettare. Le ho chiesto: “Anche se non fossi sposata perché dovresti trattare una persona che sta perdendo un bambino in questo modo?”. Lei mi guardò e disse: “Non si tratta di un'emergenza, lo sarebbe solo se avessi più di 60 anni”.
Andrea, 28, stilista, Colombia
Quando ero incinta di 12 settimane sono andata a fare l'ecografia programmata. Il dottore mi ha detto che c'era qualcosa che non andava senza specificare cosa fosse. Il giorno successivo mi sono svegliata ed ho notato che il letto era macchiato di sangue. Non ho ricevuto nessuna informazione sul perché io abbia avuto un aborto. Le infermiere sono state molto fredde e insensibili e si sono comportate come se per loro fosse solo routine. Di tutto lo staff dell'ospedale l'unico che ha mostrato un pò di umanità è stato il medico che più avanti mi ha rassicurato che avrei potuto cercare un'altra gravidanza.
Sarah, 40, impiegato statale, Australia
La morte in utero è molto frequente in Australia: colpisce 2000 famiglie ogni anno. Il numero di morti in utero è rimasto invariato negli ultimi 20 anni e per le donne indigene è addirittura il doppio. Prima che accadesse a me e io diventassi quell' 1 su 6 non avevo mai pensato che un bambino potesse morire in utero. Non se ne parla mai. Il medico mi aveva detto del rischio di prolasso del cordone a causa dell’eccesso di liquido amniotico, ma nessuno mi aveva detto che avevo anche un rischio aumentato di morte in utero.
Becky, 38, insegnante di scuola primaria, Vietnam
Io e mio marito eravamo al settimo cielo quando sono rimasta incinta di due gemelle ed è stato devastante perderne una - il suo nome è Isla - a 34 settimane. Ero terrorizzata di perdere anche l'altra e ho insistito per stare in ospedale. Il giorno dopo ho partorito con un taglio cesareo le nostre bimbe. Dopotutto l'ospedale è stato di grande sostegno, ci è stata data una camera singola e abbiamo avuto tempo da passare con Isla. Nonostante questo però alcuni dottori hanno manifestato totale mancanza di sensibilità e uno mi ha addirittura chiesto perchè piangessi e mi ha detto di farmi forza.
IL VISSUTO DI COLPA E VERGOGNA
Dall’inchiesta si evince dunque che molte donne, anche nei paesi più sviluppati dove sono disponibili le migliori procedure sanitarie, ancora oggi non ricevono cure appropriate e rispettose quando il loro bambino muore durante la gravidanza o al momento del parto e che, perdere un bambino durante la gravidanza per aborto spontaneo o morte in utero è ancora un tabù in tutto il mondo a cui si associa un vissuto di colpa e vergogna.
“Non sono riuscita a fare niente per salvarti dalla morte. Cosa ho sbagliato per meritare che accadesse questo? Io sono viva e tu no, con quale diritto torno a vivere adesso”?
Sono queste le parole, negate spesso anche alla propria stessa consapevolezza perché troppo dolorose, che rimbalzano silenziosamente nel cuore e nella mente di una mamma che vive un lutto perinatale a cui si aggiunge il terrore di dimenticare tutto del proprio figlio, i tratti del suo viso e le sensazioni del breve contatto con lui quando è stato possibile. La memoria si aggrappa disperatamente ad ogni piccolo frammento anche il più terrificante.
Un altro tema è il rimpianto per aver scelto di non vederlo se nato morto o malformato, di non averlo salutato dopo l’autopsia, di non averlo tenuto in braccio mentre moriva.
E ’un dolore silenzioso e lacerante che, se non riconosciuto e trattato, neanche la nascita di figli sani in seguito può curare del tutto.
GLI ALTRI BAMBINI
Quando parliamo di lutti perinatali, morti endouterine, morti endofetali, aborti spontanei e persino quando parliamo di interruzioni volontarie di gravidanza stiamo parlando della stessa cosa: eventi traumatici che continuano ad esercitare i loro effetti sul futuro se non affrontati e trattati in psicoterapia.
Le ricadute sono importanti sulla coppia, sulla gravidanza successiva, sui figli che già c’erano e anche sulla percezione del futuro della donna.
Non è raro, dopo un lutto perinatale, sentirsi esortare a vivere per i vivi e non sprecare tempo coi morti.
Sebbene sia umano e comprensibile in una fase iniziale del lutto appoggiarsi ai propri cari, sentire di poter contare sul loro affetto e la loro vicinanza, in seguito c’è il rischio che questa vicinanza diventi asfissiante per loro. C’è il rischio di spostare inconsapevolmente il peso del dolore inevitabile che la morte ha prodotto sulle spalle dei figli vivi, caricandoli di enormi responsabilità.
“Ci si convince che la propria vita abbia senso solo grazie al proprio bambino vivo e si finisce con il riversare su di lui tutta la propria esistenza”. Questo è pericolosissimo.
I bambini schiacciati dal peso di questa responsabilità, che sentono chiaramente anche da molto piccoli, “tenderanno a sentirsi fragili e avranno paura che un qualunque loro gesto possa ferire irrimediabilmente il genitore” percepito come fragile, triste, smarrito.
Ad esempio è molto importante che bambini sappiano perché le persone intorno a loro sono tristi, devono poter capire perché anche loro sono tristi ora che il fratellino o la sorellina non arriverà più.
Le domande che i bambini vivi possono porre agli adulti sono tante, come ad esempio: Morirò anche io? Moriranno anche i miei genitori? Quello che è successo è successo per colpa mia? È normale, infatti, che in gravidanza il bambino abbia provato gelosia o manifestato aggressività verso il futuro fratellino, il bambino può dunque pensare che l’effetto di questa sua gelosia possa essere stato la causa della perdita del bambino.
E’ importante rispondere a queste domande in modo chiaro per evitare che alimentino in solitudine i loro sensi di colpa che resteranno nel loro cuore per sempre.
Dobbiamo abbandonare l’idea che i bambini non capiscano, loro capiscono molto bene ciò che li circonda, soprattutto lo stato emotivo delle persone intorno a loro.
Con la loro innocenza ci pongono domande più o meno dirette e l’adulto dovrebbe tutelarli sempre e comunque, dando risposte chiare fatte di parole semplice e adatte a loro. Se è difficile per l’adulto trovare queste parole è importante andare da un professionista anche solo per farsi aiutare ad individuarle.
LE GRAVIDANZE SUCCESSIVE
Sebbene probabilmente saranno in molti a consigliare di riprovare subito ad avere un altro figlio, in linea con i “valori della distrazione e della dissociazione dal dolore” tipica del nostro tempo, questa scelta sarebbe rischiosa.
Non bisogna avere fretta di mettere al mondo un’altra vita: è importante concedersi il tempo per elaborare il lutto.
Per poter affronta senza ansia una gravidanza dopo un lutto perinatale serve tempo per elaborare il proprio dolore, e per passare dalla disorganizzazione che l’evento ha creato nella propria mente e nella propria vita, a una riorganizzazione psichica ed emotiva che renda possibile per i genitori la creazione di una relazione con il bambino che possa essere libera dai condizionamenti del passato e dal suo dolore.
Per fare questo è necessario un tempo: alcuni autori consigliano di aspettare almeno 1 anno, ma è un aspetto molto delicato e soggettivo, qualcuno potrebbe aver bisogno di più tempo.
Se è vero che ogni bambino che non può essere vissuto dai propri genitori ha il diritto di essere ricordato, ogni bambino che nasce ha il diritto di essere trattato nella sua unicità.
COSA ACCADE NELLA COPPIA
Per elaborare il lutto è necessario parlare principalmente con il partner.
Parlare con il partner del dolore aiuta a percepire la perdita come reale ad affrontarla e a superarla.
Può accadere che possa far paura l’idea di trovarsi faccia a faccia con il dolore e la disperazione del partner, oppure che possa far paura l’idea di travolgerlo con il proprio dolore. Il rischio è dunque che entrambi creino una corazza difensiva per proteggersi ed apparentemente proteggere l’altro dal dolore.
Se la coppia non riesce a comunicare il proprio dolore questo molto spesso porta a pericolosi equivoci: la donna penserà che quel bambino per il compagno non abbia avuto lo stesso valore che ha avuto per lei . Il compagno al tempo stesso continuerà a non affrontare l’argomento e a tacere il suo dolore, preoccupato dello stato emotivo della donna, mettendo le sue reazioni emotive da parte e rifugiandosi spesso nel lavoro.
A volte l’evoluzione di queste situazioni conduce a perdersi, pur continuando a vivere sotto lo stesso tetto.
E’ importante che la coppia sappia che sta vivendo una delle prove più difficili nella vita e che le loro risorse interne e il loro amore possono non bastare ad aiutarli. E’ necessario in molti casi il supporto di un professionista che possa supportarli a comunicare le proprie emozioni e i propri vissuti, nel rispetto dei modi e dei tempi dell’altro. Questo permette di riavvicinarsi ed andare avanti insieme.
Può capitare che l’elaborazione del lutto possa essere ostacolata perché associata alla convinzione che superare il lutto equivalga a dimenticare il bambino non nato. I genitori hanno paura di dimenticarlo, hanno paura di dimenticare la sofferenza, perché la sofferenza li lega a lui.
E’ importante sapere che i bambini persi non saranno mai persi in realtà, perché i loro genitori li terranno per sempre nei loro ricordi e nel cuore, ma bisogna imparare a darsi un “po’ di respiro”, sapendo che elaborare un lutto non vuol dire dimenticare, vuol dire solo riporre al giusto posto l’amore provato.
“…Vorrei imparare a separare i ricordi dal dolore o almeno una parte di essi per quanto è possibile. Vorrei solo che non tutto il passato sia così intriso dal dolore. In questo modo potrei ricordarti ancora di più, capisci? Non avrò paura ogni volta del bruciore dei ricordi. Devo accomiatarmi da te… allontanarmi solo quel tanto necessario perché il petto possa allargarsi in un respiro completo”.
(David Grossman in “Caduto fuori dal tempo”)
Bibliografia
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- Zerbini E. (2017): Un giorno ci rivedremo? (ultimo accesso 2 agosto 2019)
- Zerbini E. (2018): Finché li chiameremo mai nati (ultimo accesso 2 agosto 2019)
- Zerbini E.: Quando il Commiato viene Negato" (ultimo accesso 2 agosto 2019)