Hikikomori: quando la propria stanza diventa una gabbia dorata
L’adolescente decide di non uscire più di casa. E ci riesce, per anni o anche per tutta la vita.
Hikikomori è una parola giapponese che indica la persona che ha scelto di isolarsi in casa perché si sente in difficoltà tra gli altri. Si sente a proprio agio unicamente fra le mura di casa, specie nella propria stanza e fra le proprie cose.
La persona Hikikomori tipicamente decide di ritirarsi dal mondo quando è ancora adolescente, rifiutandosi dapprincipio di andare a scuola e, quando diventa adulta, di trovarsi un lavoro.
In Giappone, dove il fenomeno è noto fin dagli anni ottanta, la diagnosi di Hikikomori viene applicata solo se vi è un ritiro completo dalla società per almeno sei mesi.
In genere la persona Hikikomori vive di notte, per lo più leggendo o oziando. Usa molto il computer per relazionarsi on line con altre persone (si veda il seguente articolo per la distinzione tra l’uso sano e l’uso patologico dei Social Network oppure gioca per ore con i videogiochi.
Durante il giorno invece dorme, senza nessuna motivazione a cercare lavoro o a studiare.
Gradualmente la persona Hikomori perde la propria capacità di interagire col mondo esterno, si chiude in se stessa e diviene sempre più aggressiva con le poche persone che ancora incontra (per lo più i genitori).
Hikikomori in Occidente
Negli ultimi anni si comincia a parlare di Hikikomori anche nei paesi occidentali.
Qui da noi il fenomeno viene descritto utilizzando la terminologia medico-psichiatrica. Vengono usati termini quali: fobia sociale (paura eccessiva del giudizio altrui che porta ad evitare le situazioni sociali) e agorafobia (paura eccessiva di perdere il controllo che porta ad evitare i luoghi aperti e non familiari) ma la problematica non differisce molto nella sostanza.
Fortunatamente in Occidente il fenomeno si sta diffondendo tra gli adolescenti con una frequenza e un’intensità inferiori a quello che è avvenuto in Giappone, tanto che alcuni psicologi negano che questo fenomeno sia presente in Occidente e preferiscono parlare di “ansia sociale grave”.
Anche se il fenomeno da noi sembra essere meno preoccupante, è comunque presente. Per questo motivo comprendere la natura del problema Hikikomori, le sue cause e le sue possibili cure, può essere utile anche dalle nostre parti.
Cause
Il fenomeno è piuttosto recente e, pur non essendoci ancora un pieno accordo tra gli studiosi che si sono occupati del fenomeno, sono stati individuati una serie di fattori predisponenti, tra i quali:
Che fare
Il problema non va sottovaluto immaginando che si risolva da solo. Né va affrontato semplicisticamente con esortazioni ad uscire di casa e ad impegnarsi in contesti sociali, perché questo non funziona, anzi spesso dà luogo al risultato opposto stimolando nella persona una reazione di rabbia e un maggiore ritiro sociale.
La persona Hikikomori esprime col suo ritiro un disagio interiore che va affrontato.
In Giappone, dove il fenomeno ha una maggiore diffusione, lo Stato ha predisposto delle comunità specializzate per l’accoglienza e il trattamento delle persone Hikikomori. Il percorso riabilitativo in questi centri può durare da qualche mese fino ad alcuni anni.
In Italia, dove il fenomeno è più ridotto e meno grave, tali centri specializzati non esistono e si consiglia di affrontare il problema facendo uso di una terapia psicologica.
In una prima fase è indicata una psicoterapia individuale, per permettere alla persona di aprirsi gradualmente con un terapeuta in un ambiento protetto e di sviluppare con lui un legame di fiducia. Questo legame si dimostrerà la base per lo sviluppo futuro delle competenze sociali necessarie a uscire dalla situazione di ritiro.
In un secondo momento può essere utile affiancare la terapia individuale con una terapia in gruppo, dove la persona può esercitare “dal vivo” le proprie competenze interpersonali, sempre in un ambiente protetto ma leggermente più impegnativo del rapporto a due della terapia individuale.
Anche la psicoterapia familiare può essere utile nel trattamento di questo disturbo. In ambito familiare la terapia dovrebbe mirare a modificare i ruoli cristallizzati dei genitori e a stimolare nuovi modi di vivere la famiglia.
Il consiglio è dunque quello di permettere alla persona Hikikomori (o in Occidente: la persona che soffre di “ansia sociale grave”) di fare una serie di colloqui preliminari con specialisti diversi, in modo da permettere alla persona di scegliere liberamente il terapeuta con cui si sente maggiormente a proprio agio.
Una volta fatta questa scelta, è opportuno sostenere la persona a continuare il percorso psicoterapeutico, che nel caso di questo disturbo è particolarmente faticoso, perché induce la persona ad uscire di casa e a stabilire un rapporto di intimità con un altro significativo, probabilmente per la prima volta nella sua vita.
Una volta stabilita una relazione terapeutica di fiducia con un terapeuta (il che può richiedere anche dei mesi) è possibile integrare la psicoterapia individuale con altri interventi da valutare caso per caso: terapia familiare, terapia di gruppo, corsi per l’acquisizione di competenze sociali, attività socio-ricreative, corsi professionali, etc.
La persona Hikikomori tipicamente decide di ritirarsi dal mondo quando è ancora adolescente, rifiutandosi dapprincipio di andare a scuola e, quando diventa adulta, di trovarsi un lavoro.
In Giappone, dove il fenomeno è noto fin dagli anni ottanta, la diagnosi di Hikikomori viene applicata solo se vi è un ritiro completo dalla società per almeno sei mesi.
In genere la persona Hikikomori vive di notte, per lo più leggendo o oziando. Usa molto il computer per relazionarsi on line con altre persone (si veda il seguente articolo per la distinzione tra l’uso sano e l’uso patologico dei Social Network oppure gioca per ore con i videogiochi.
Durante il giorno invece dorme, senza nessuna motivazione a cercare lavoro o a studiare.
Gradualmente la persona Hikomori perde la propria capacità di interagire col mondo esterno, si chiude in se stessa e diviene sempre più aggressiva con le poche persone che ancora incontra (per lo più i genitori).
Hikikomori in Occidente
Negli ultimi anni si comincia a parlare di Hikikomori anche nei paesi occidentali.
Qui da noi il fenomeno viene descritto utilizzando la terminologia medico-psichiatrica. Vengono usati termini quali: fobia sociale (paura eccessiva del giudizio altrui che porta ad evitare le situazioni sociali) e agorafobia (paura eccessiva di perdere il controllo che porta ad evitare i luoghi aperti e non familiari) ma la problematica non differisce molto nella sostanza.
Fortunatamente in Occidente il fenomeno si sta diffondendo tra gli adolescenti con una frequenza e un’intensità inferiori a quello che è avvenuto in Giappone, tanto che alcuni psicologi negano che questo fenomeno sia presente in Occidente e preferiscono parlare di “ansia sociale grave”.
Anche se il fenomeno da noi sembra essere meno preoccupante, è comunque presente. Per questo motivo comprendere la natura del problema Hikikomori, le sue cause e le sue possibili cure, può essere utile anche dalle nostre parti.
Cause
Il fenomeno è piuttosto recente e, pur non essendoci ancora un pieno accordo tra gli studiosi che si sono occupati del fenomeno, sono stati individuati una serie di fattori predisponenti, tra i quali:
- Essere figli maschi primogeniti di una famiglia di ceto medio-alto.
- Un padre assente o poco presente. E’ stato notato che spesso il papà è molto impegnato lavorativamente fuori casa e anche quando è a casa passa poco tempo col figlio o gli presta poca attenzione.
- Una madre fin troppo presente e protettiva, che rappresenta l’unica figura di genitore. La madre in genere tende ad assecondare l’isolamento del figlio senza chiedergli (e chiedersi) il motivo del suo disagio. E’ in genere la madre che si occupa dei bisogni fisici del figlio, cercando di prevenirli prima ancora che il figlio si esprima.
- Una cultura familiare improntata al successo sociale. Tipicamente, durante le conversazioni i genitori misurano il valore delle persone unicamente in base ai risultati economici, lavorativi o scolastici e spesso le persone vengono confrontate e giudicate “vincenti” o “perdenti”.
Che fare
Il problema non va sottovaluto immaginando che si risolva da solo. Né va affrontato semplicisticamente con esortazioni ad uscire di casa e ad impegnarsi in contesti sociali, perché questo non funziona, anzi spesso dà luogo al risultato opposto stimolando nella persona una reazione di rabbia e un maggiore ritiro sociale.
La persona Hikikomori esprime col suo ritiro un disagio interiore che va affrontato.
In Giappone, dove il fenomeno ha una maggiore diffusione, lo Stato ha predisposto delle comunità specializzate per l’accoglienza e il trattamento delle persone Hikikomori. Il percorso riabilitativo in questi centri può durare da qualche mese fino ad alcuni anni.
In Italia, dove il fenomeno è più ridotto e meno grave, tali centri specializzati non esistono e si consiglia di affrontare il problema facendo uso di una terapia psicologica.
In una prima fase è indicata una psicoterapia individuale, per permettere alla persona di aprirsi gradualmente con un terapeuta in un ambiento protetto e di sviluppare con lui un legame di fiducia. Questo legame si dimostrerà la base per lo sviluppo futuro delle competenze sociali necessarie a uscire dalla situazione di ritiro.
In un secondo momento può essere utile affiancare la terapia individuale con una terapia in gruppo, dove la persona può esercitare “dal vivo” le proprie competenze interpersonali, sempre in un ambiente protetto ma leggermente più impegnativo del rapporto a due della terapia individuale.
Anche la psicoterapia familiare può essere utile nel trattamento di questo disturbo. In ambito familiare la terapia dovrebbe mirare a modificare i ruoli cristallizzati dei genitori e a stimolare nuovi modi di vivere la famiglia.
Il consiglio è dunque quello di permettere alla persona Hikikomori (o in Occidente: la persona che soffre di “ansia sociale grave”) di fare una serie di colloqui preliminari con specialisti diversi, in modo da permettere alla persona di scegliere liberamente il terapeuta con cui si sente maggiormente a proprio agio.
Una volta fatta questa scelta, è opportuno sostenere la persona a continuare il percorso psicoterapeutico, che nel caso di questo disturbo è particolarmente faticoso, perché induce la persona ad uscire di casa e a stabilire un rapporto di intimità con un altro significativo, probabilmente per la prima volta nella sua vita.
Una volta stabilita una relazione terapeutica di fiducia con un terapeuta (il che può richiedere anche dei mesi) è possibile integrare la psicoterapia individuale con altri interventi da valutare caso per caso: terapia familiare, terapia di gruppo, corsi per l’acquisizione di competenze sociali, attività socio-ricreative, corsi professionali, etc.