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ADHD: dai sintomi aspecifici alla diagnosi categoriale

L’ADHD è quella condizione in cui i comportamenti sociali non seguono quelli della popolazione di riferimento e sono caratterizzati da impulsività, iperattività e difficoltà a mantenere l’attenzione.

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La diagnosi di ADHD è stata aggiornata nell’ultima edizione del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali.

Questo disordine è caratterizzato da un insieme di comportamenti che alterano il rendimento nelle attività sociali, lavorative, scolastiche. I sintomi (aspecifici) sono caratterizzati da disattenzione, iperattività e impulsività.

A tali grandi macro-aree di sintomi si associano difficoltà a mantenere l’attenzione ravvicinata ai dettagli, difficoltà ad organizzare compiti e attività della vita quotidiana, incapacità a rimanere seduti per lungo tempo, irrequietezza, eccessiva loquacità. I bambini dovrebbero avere almeno 6 di questi sintomi delle tre macro aree (inattenzione, impulsività, iperattività), mentre gli adolescenti possono presentarne anche solo 5.

Ciò che caratterizza l’ADHD (DSM-IV-TR; DSM-V) è una condizione di disattenzione e/o di iperattività-impulsività più intensa di quanto si osservi in altre persone della stessa età. Questi sintomi, che modificano, di fatto, la vita quotidiana, devono essere presenti da prima dei 7 anni di età del bambino e devono interferire con il funzionamento generale.

I bambini con ADHD sono distratti, ma intelligenti, non riescono a stare fermi al banco, seduti composti, mantenere l’attenzione prolungata durante le attività scolastiche proposte dagli insegnanti allo stesso modo per tutta la classe. Questi bambini sono “diversi” dagli altri, si comportano in un modo che frustra, da fastidio, rende difficile la gestione della classe, ma anche al genitore di poter fare la spesa in tranquillità.

Sono bambini che non si fermano ad ascoltare il rimprovero, che non accettano le punizioni. Non portano a termine i compiti che gli vengono richiesti, difficilmente ascoltano le indicazioni dell’adulto, fanno errori di distrazione.

A scuola spesso hanno l’insegnante di sostegno e anche l’Assistente Educativo-Culturale perché la loro condotta è così dirompente da rendere difficile anche la loro uscita per andare in bagno o mangiare a mensa. I loro lavori sono spesso disordinati e portati avanti con mille difficoltà e senza quell’accuratezza che tipicamente viene chiesta agli altri bambini della sua età.

Sono bambini perennemente distratti, che non ascoltano, che passano da un’attività all’altra in un batter d’occhio, non seguono le indicazioni che gli vengono date e spesso non portano a termine le attività iniziate.

I compiti impegnativi, sentiti dal bambino come pesanti, vengono rifiutati ed evitati. Ne consegue una tendenza all’oppositività, ma secondaria al disturbo. Sono bambini, infatti, che preferiscono giocare senza regole, correre, arrampicarsi, fare cose pericolose, disobbedire e farsi male. Ma ne soffrono per questo. Nel loro intimo, se si sanno osservare, si possono cogliere i segni della vergogna, della tristezza, dell’imbarazzo, del senso d’incapacità a comportarsi come tutti gli altri.

Ma non sono questi tutti “sintomi” dell’infanzia? I bambini, si sa, ragionano principalmente secondo il principio di piacere. Le regole arrivano più tardi, imparano a conoscerle, ma gli aspetti sensoriali della vita sono sempre ricercati in questa tappa di sviluppo. Più il bambino è piccolo, più esprime i suoi stati d’animo ed il suo disagio attraverso il corpo. Il corpo rappresenta un mezzo d’espressione privilegiato. I segnali che comunica attraverso il corpo e il comportamento prima di tutto (che è una via di comunicazione più evidente e immediata anche per molti adulti) devono essere considerati sintomi che veicolano significati da decodificare.

La descrizione dei sintomi appena elencata non riflette un qualsiasi comportamento di un bambino? Di un bambino vivace? Di un bambino magari arrabbiato o triste per un qualche evento successo nel suo contesto di vita (life event)?

L’ADHD è una condizione neurobiologica, quando è realmente presente. Quando, cioè, il comportamento sociale non può essere correlato ad altre cause se non quelle neurobiologiche. Ma servono test accurati per diagnosticarla. I test neuropsicologici, in fondo, valutano sintomi che potrebbero essere aspecifici, cioè relativi al rendimento causato dal deficit neurobiologico. Come per l’autismo: i sintomi sono quelli dell’autismo, ma il disturbo può non esserlo necessariamente, ma appartenere piuttosto ad un disordine dello spettro autistico.

Non è una diagnosi da trattare sotto gamba, da assegnare con una veloce, poco accurata o superficiale valutazione. Somministrando qualsiasi test cognitivo, neuropsicologico (inteso come valutazione dei sintomi evidenti, quindi di eventuali comportamenti – aspecifici – che possono essere la rappresentazione di un disturbo neuropsicologico come di qualsiasi altra variabile ambientale o psicologica), si può valutare un bambino più irrequieto o distratto degli altri, ma assegnargli una diagnosi di ADHD o di Comportamento Dirompente o di Disturbo Specifico dell’Apprendimento è altra cosa.

Le sfumature della persona sono altre. Una diagnosi così condiziona il bambino per tutta la sua infanzia. Se la diagnosi viene confermata, poi, (generalmente ogni anno per il sostegno scolastico e l’AEC), il bambino continuerà con test e valutazioni, strategie per l’apprendimento, terapie basate sul comportamento e probabilmente a pochi verrà in mente di chiedersi se la sua sfera psicoaffettiva ne risenta in qualche modo di tutta questa condizione di malattia, etichette, terapia.

Studi recenti e meno recenti, ci dicono come l’ADHD sia un disturbo che appartiene al mondo delle neuroscienze (e alla psicologia, in quanto neuroscienza). La ricerca sugli endofenotipi (Castellanos, Tannock, 2002) ci dice come la sindrome da deficit dell’attenzione e iperattività sia caratterizzata ad una condizione di ipercinesia, iperattività appunto - che si ripercuote anche sulla locomozione; da difficoltà nelle risposte inibitorie - che derivano da un deficit delle funzioni esecutive; deficit di regolazione dell’arousal o attivazione; intolleranza al ritardo o all’attesa.

L’ipotesi alla base di questi “esiti comportamentali” o, più correttamente, neuropsicologici, è che esista una vera e propria condizione di eccesso o difetto nella produzione di dopamina. Sia l’eccesso che il difetto causano entrambi delle anomalie nella sfera cognitiva e comportamentale. Nell’incapacità di mettere un freno all’eccessivo carico di stimolazione, con un deficit delle funzioni esecutive, della memoria di lavoro e della capacità di decision making e problem solving, il bambino da la prima risposta che gli viene in mente, quella automatica e conosciuta e fa lo stesso con il comportamento.

La disattenzione deriva da questo: l’iperattività gli impedisce di concentrarsi a lungo.

I fattori genetici, che sembrano essere implicati in questa condizione neurobiologica, contribuiscono alla sostanziale variabilità dei fenotipi nell’espressione dell’ADHD. Come ogni questione appartenente alle neuroscienze, l’influenza dei fattori ambientali fa la differenza. L’interazione gene+ambiente è in questo caso rappresentata da aspetti genetici, neurobiologici, ereditarietà e variabili correlate all’ambiente di vita, cioè a traumi fisici (danno cerebrale di origine traumatica), ictus, ma anche importante deprivazione psicoaffettiva e ambientale precoce, fattori familiari, tabagismo della madre durante la gravidanza.

La nicotina, infatti, ha un ruolo importante nella modulazione dell’eccessiva crescita dendritica e delle connessioni neurali (correlata alla memoria di lavoro, aspetto critico nell’ADHD). I sintomi dell’ADHD devono essere, quindi, interpretati su un piano comportamentale, ma soprattutto neuropsicologico. Di fatto, i fattori bio-psico-sciali interagiscono nell’esordio del disturbo.

Sia i modelli neurobiologici che neuropsicologici hanno riscontrato nell’ADHD un deficit sostanziale delle Funzioni Esecutive (FE). Ma cosa sono le Funzioni Esecutive? Possono essere definite come un costrutto neuropsicologico che riguarda i processi psicologici nel controllo – inconsapevole – del pensiero e, quindi, dell’azione (XXIII Congresso Nazionale S.I.N.P.I.A., 2006).

Le FE vengono chiamate in causa nei processi decisionali (decision making) e nell’attuazione di azioni che implicano l’attività di pianificazione del compito. Le FE vengono usate nell’apprendimento di comportamenti nuovi che richiedono l’esecuzione di una sequenza ordinata di azioni che devono essere pianificate, appositamente scelte (e non eseguite per abitudine) e controllate (monitorate).

Si tratta di funzioni cognitive di ordine superiore, che implicano abilità di integrazione, sintesi, pianificazione, organizzazione, elaborazione di dati dell’esperienza e dell’apprendimento già acquisito. Nei bambini, un deficit delle FE causa difficoltà a stabilire ordini di priorità; difficoltà a mantenere il focus dell’attenzione nella pianificazione (e monitoraggio) dell’azione; difficoltà nell’eseguire più compiti allo stesso tempo (causata dal mancato o scarso controllo delle risposte automatiche, ma anche dal deficit di arousal/attivazione); difficoltà a procrastinare i bisogni e ad iniziare nuove attività; difficoltà a mantenere l’attenzione; a ricordare gli eventi (iperstimolazione e difficoltà a scegliere un dato dell’esperienza); distraibilità; disorganizzazione; difficoltà a controllare le risposte automatiche; difficoltà nel rendimento scolastico/lavorativo…

L’inattenzione, inoltre, non sarebbe altro che il rallentamento nella risposta agli stimoli e quindi, nella capacità inibitoria degli impulsi. Le FE comprendono anche la memoria di lavoro, l’autoregolazione delle emozioni, l’attivazione psicofisiologica, la capacità di analisi e sintesi del comportamento e i processi motivazionali. Le FE implicano flessibilità cognitiva, controllo dell’eloquio, capacità di rappresentazione dei problemi, individuazione degli errori ed esecuzione motoria.
 
Le difficoltà nei processi di decision making, problem solving, selezione della risposta più idonea fra una gamma di stimoli, le capacità riflessive, la capacità a posticipare i bisogni e a tollerare la frustrazione possono essere, comunque, segni cognitivi e comportamentali di bambini preoccupati, tristi, arrabbiati. E i fattori psicologici sono un tutt’uno con il soma e i processi neurobiologici.

Non è, dunque, tutto correlato? Prima di scomodare la neurobiologia del cervello, non sarebbe forse il caso di osservare di più questi bambini nella loro famiglia, a scuola, mentre giocano? Non sarebbe più efficace chiedersi se qualcosa li preoccupa e valutare poi eventualmente anche se certe risposte sono estremamente invalidanti da poter suggerire un’alterazione neurobiologica primaria?
 
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